lunedì 31 ottobre 2011

[BSA NAZIONALE] EMERGENZA ALLUVIONE: LE BRIGATE SI MOBILITANO!MOBILITIAMOCI!


Da Sabato 29 Ottobre le Brigate di solidarietà attiva sono presenti nei territori liguri e toscani colpiti dall’alluvione degli scorsi giorni. La situazione è critica: interi paesi sono stati sommersi da metri di fango, altri , come Vernazza e Monterosso, due delle meravigliose 5 terre, sono state praticamente cancellate. Da una parte il Magra e corsi d’acqua minori che esondano, dall’altra le frane che travolgono tutto in un territorio sconvolto da un grave dissesto idrogeologico.
Forti dell’esperienza accumulata in altre situazioni di emergenza come il terremoto in abruzzo del 2009 e dell’alluvione in Veneto del 2010, abbiamo deciso di intervenire a fianco delle popolazioni colpite da questo dramma per esprimere una solidarietà che non sia solo scritta, ma anche pratica.
In maniera del tutto autofinanziata, autogestita e autorganizzata tutte le Brigate si sono mobilitate, pala in spalla, per aiutare a pulire le case e salvare quanto può essere recuperato. Non ci muove un intento puramente assistenzialista, ma la precisa e profonda convinzione che la solidarietà debba essere attiva e praticata dal basso senza quei meccanismi di speculazione e potere che si celano spesso dietro alle grandi macchine di intervento istituzionali. Valori di autogestione e solidarietà che, sopratutto nei momenti di emergenza, hanno il loro riflesso in pratiche sociali che riducono l’egoismo e favoriscono un modo di agire più solidale.
Se condividi i nostri valori e hai voglia di fare una solidarietà che sia veramente attiva , le Brigate cercano volontari da inviare nelle zone dove siamo attivi (Borghetto di Vara, Brugnato, Monterosso, Genova).
Per l’intervento pratico occorre:
-essere attrezzati con pala, guanti da lavoro, stivali
-per dormire: materassino, sacco a pelo
-scorte di cibo per il pranzo al sacco
-è preferibile essere automuniti
Siamo anche riusciti ad ottenere una tenda con 14 brande entro il campo di accoglienza per i volontari nella zona di Brugnato: chi parte volontario con noi ha garantito alloggio per la notte e docce.

I volontari saranno organizzati in turni per garantire copertura di presenze continuativa nel tempo. Si invita a partire SOLO dopo essersi messi in contatto e organizzati con chi è già presente sul posto o con i contatti indicati di seguito.
Chi non può venire può comunque contribuire con un piccolo versamento per il cibo e le attrezzature su questa postepay 4023600596189581 intestata a Ciapetti Giuliano: come realtà autofinanziata possiamo arrivare fino a dove i nostri mezzi di lavoratori, disoccupati, studenti e cassaintegrati ci fanno arrivare.

Aggiornamenti:
superata l'allerta meteo siamo attivi nella zona di Brugnato. Ottenuto il permesso dal vicesindaco di Monterosso, stiamo valutando di ampliare il nostro intervento anche in quella zona.

Contatti:
Luca Bsa Milano 3280394099
Ilaria Bsa Toscana 3925031337 brigatatoscana@autistici.org



mercoledì 26 ottobre 2011

[BSA NAZIONALE] la Liguria ha bisogno di noi; le Bsa mobilitate per l'emergenza alluvione

Memori delle passate esperienze a fianco dei terremotati abruzzesi nel 2009 e degli alluvionati del Veneto nel 2010, le Brigate di soliderietà attiva decidono di intervenire in soccorso della popolazione ligure colpita dalla grave calamità naturale di questi giorni. Occorrono volontari disposti a restare qualche giorno per aiutare, divisi magari in più turni. In attesa di maggiori e più dettagliate informazioni su come raggiungere i paesi isolati e su come intervenire, chiediamo a chiunque abbia la voglia e la possibilità di aiutarci di dare la propria disponibilità.


Contatti:
La Spezia
Jacopo 349.0060217

Lombardia:
Luca 3280394099
Giuseppe 3357284479

Veneto:
Dario 3468338454 bsa.padova@gmail.com

Piemonte:
Alyosha 3356552466 brigatasolidarietaattivavco@gmail.com

Toscana
Ilaria 3925031337 brigatatoscana@autistici.org

Lazio:
Maria 3336055582

Umbria:
Oscar 3496437714

BRIGATE DI SOLIDARIETA ATTIVA

lunedì 24 ottobre 2011

Il mito degli «antenati ebraici»


La rielaborazione di un intervento al FestivalStoria di Torino
di Shlomo Sand 
Il ricorso al termine fluido di «popolo», ha conosciuto molti avatar nell'epoca moderna. Se in un lontano passato, il termine si applicava a gruppi religiosi come «il popolo di Israele», il «popolo cristiano», o ancora, «il popolo di Dio», nei tempi moderni, il suo uso è diretto alla designazione di collettività umane che hanno in comune componenti culturali e linguistiche laiche.
In generale, considerando il periodo precedente l'avvento della stampa, dei libri, dei giornali, e dell'educazione controllati dallo Stato, è molto difficile utilizzare il concetto di «popolo» per definire un gruppo umano.
                     cover_shlomo_sand


Un unico ceppo
Finché il livello di comunicazione tra le tribù da un villaggio all'altro era debole ed episodico, finché il miscuglio di dialetti differiva secondo le vallate, e il contadino o il pastore disponevano di un ristretto vocabolario, limitato al proprio lavoro e alle proprie credenze religiose, la realtà dell'esistenza dei popoli, può essere seriamente messa in discussione. La definizione di «popolo» relativa a una società di contadini analfabeti, mi è sempre sembrata problematica, e intrisa di un inquietante anacronismo
Sempre legati ai documenti scritti, trasmessi, all'occorrenza, dai centri di potere intellettuali del passato, gli storici sono stati imprudentemente inclini a generalizzare, e ad applicare alle società, nel loro insieme, le identità proprie di un sottile strato di élites, di cui davano testimonianza i documenti storici. Nei regni e principati, dotati di un linguaggio amministrativo, per la stragrande maggioranza dei soggetti, il grado di identificazione con l'apparato statale era, nella maggior parte dei casi, molto vicino allo zero. Se una forma di identificazione ideologica col potere è potuta esistere, essa era legata alla nobiltà terriera e alle élites urbane; queste compiacevano il sovrano, e davano una base al suo potere.
Cinquecento anni fa non esisteva il popolo francese, italiano o vietnamita, e, parimenti, non c'era neppure un popolo ebraico disperso per il mondo. Esisteva invece, fondata sulla pratica del culto e sulla fede religiosa, una importante identità ebraica, più o meno forte a seconda del contesto e delle circostanze; più le componenti culturali della comunità erano lontane dal culto, più si contaminavano con le pratiche culturali e linguistiche degli ambienti non ebrei che le circondavano.
Le considerevoli differenze nella cultura quotidiana tra le varie comunità ebraiche, hanno costretto gli storici sionisti a sottolineare un'origine «etnica» unica: la maggior parte, se non tutte le comunità ebraiche, deriverebbero da uno stesso ceppo: quello degli ebrei antichi. La maggior parte dei sionisti non pensavano a una razza pura, tuttavia quasi tutti questi storici, hanno fatto riferimento a un'origine biologica comune come criterio decisivo di definizione di appartenenza allo stesso popolo.

Dal seme di Adamo
Così come i francesi erano persuasi di avere come antenati i Galli, così come i tedeschi sono stati nutriti nell'idea di essere discendenti diretti degli ariani teutonici, così anche gli ebrei dovevano sapere di essere gli autentici discendenti degli ebrei fuggiti dall'Egitto. Solo questo mito degli «antenati ebraici» poteva giustificare la rivendicazione di un diritto in Palestina; sono in molti a esserne ancora convinti, ai nostri giorni. Ciascuno sa che, nel mondo moderno, l'appartenenza a una comunità religiosa non costituisce diritto di proprietà su un territorio, mentre, al contrario, un popolo «etnico» trova sempre una terra che possa rivendicare come quella dei suoi antenati.
Ecco perché, agli occhi dei primi storici sionisti, la Bibbia ha smesso di essere una impressionante narrazione teologica, per divenire un libro di storia laica il cui insegnamento è impartito a tutti i bambini israeliani ebrei, dal primo anno delle elementari fino alla maturità. Sulla base di questo insegnamento, il popolo d'Israele non è più costituito da «gentili consacrati», ma è diventato nazione direttamente dal seme di Abramo, così, quando l'archeologia moderna ha cominciato a dimostrare che non ci fu l'esodo dall'Egitto, e che il grande regno unificato da Davide e Salomone non è mai esistito, la notizia è stata accolta da reazioni dure e imbarazzate da parte del pubblico laico israeliano.
                                    jerus-preghiera
La secolarizzazione della Bibbia ha avuto luogo in parallelo con la nazionalizzazione degli «esuli». Il mito costituito dall'esilio del «popolo ebreo» da parte dei romani, è diventato la suprema cauzione dei diritti storici sulla Palestina, costruito, secondo la retorica sionista in «Terra d'Israele». Assistiamo qui a un processo particolarmente sorprendente di «formattazione» di una memoria collettiva: così, mentre tutti gli studiosi di storia ebraica nell'Antichità hanno sempre saputo che i romani non hanno esiliato la popolazione della Giudea (non si trova, d'altra parte, la minima ricerca storica su questo tema), il resto dei mortali è stato convinto, e lo è ancora, che l'antico «popolo d'Israele» è stato strappato con la forza alla sua patria, così come si dichiara solennemente, nella Carta d'Indipendenza dello Stato di Israele.

Rampolli illegittimi
Se non c'è stato, in passato, un popolo ebreo, il sionismo non è forse riuscito a crearlo nei tempi moderni? Ovunque, nel mondo, quando si è trattato di creare le nazioni, ossia dei gruppi umani rivendicanti per se stessi una sovranità, o in lotta per conservarla, sono stati inventati dei popoli dotati di una lunga anteriorità, di origini storiche lontane. Il movimento sionista ha proceduto allo stesso modo. Tuttavia, se il sionismo è stato in grado di immaginare un popolo eterno a titolo retrospettivo, non è riuscito a creare, in prospettiva, una nazione ebraica mondiale. Gli ebrei di tutto il mondo hanno oggi la possibilità di emigrare in Israele, ma la maggior parte di essi hanno scelto di non vivere sotto una sovranità ebrea e hanno preferito conservare la nazionalità di altri paesi.
Se il sionismo non ha creato un popolo ebreo mondiale, e ancor meno una nazione ebraica, ha, fatto tuttavia nascere due popoli e, anche, due nuove nazioni, che esso recalcitra purtroppo, a riconoscere, considerandoli «rampolli» illegittimi. Esiste, oggi, un popolo palestinese, frutto diretto della colonizzazione, che aspira alla propria sovranità; esiste anche un popolo israeliano, pronto a difendere, con totale abnegazione, la propria indipendenza nazionale. Questo popolo - a differenza di quello palestinese - non beneficia di alcun riconoscimento, benché disponga di una propria lingua, di un sistema generale di educazione, di una produzione letteraria, cinematografica e teatrale che esprime una cultura quotidiana viva e dinamica.

Movimenti incrociati
I sionisti, nel mondo, possono fare dei doni a Israele, esercitare una pressione sui governi dei loro paesi a favore della politica israeliana, ma, nella maggior parte dei casi, non comprendono la lingua della nazione che dovrebbe essere «la loro», e si astengono dal raggiungere il «popolo che è emigrato nella sua patria» e evitano di inviare i loro figli a partecipare alle guerre mediorientali. Nel momento in cui queste righe sono vergate, il numero di israeliani che emigrano verso i paesi occidentali, si rivela superiore a quello dei sionisti che vengono a stabilirsi in Israele.

(Traduzione di Francesca Chiarotto)
Shlomo Sand, docente all’Università di Tel Aviv, è autore del saggio “L’invenzione del popolo ebraico” pubblicato dalla Rizzoli (2010) 
VIDEO: Shlomo Sand -  L'invenzione del popolo ebraico
FestivalStoria 2011 - Università di Torino

http://www.youtube.com/watch?v=Q6_xrgPGG1o

martedì 18 ottobre 2011

[bsa nazionale] Roma 15 ottobre: comunicato

in merito ad alcuni video che mostrano un giovane esibirsi davanti ad una camionetta dei Carabinieri data alle fiamme con indosso la maglietta delle Brigate ci teniamo a ricordare che la suddetta maglietta viene venduta per l'autofinanziamento delle Brigate stesse e che non è necessariamente segno di appartenenza all'associazione. E' del tutto chiaro come sia impossibile controllare tutti coloro che comprano le nostre magliette e in quali occasioni le indossino. Ci teniamo quindi a sottolineare che non possiamo essere in nessun modo ritenuti responsabili del comportamento di un singolo che indossi i nostri simboli. Ci riserviamo comunque di prendere posizione  nel dibattito che si sta scatenando attorno alla manifestazione del 15 Ottobre in seguito, con un comunicato che verrà  pubblicato a breve.

Brigate di solidarietà attiva

mercoledì 12 ottobre 2011

[Bsa Nazionale]report Palazzo san Gervasio: contro la schiavitù moderna Brigate in prima fila!


Palazzo san Gervasio è un paesino arroccato su una collina in provincia di Potenza, circondato da una campagna coltivata a monocoltura (Grano e pomodoro tardivo) scarsamente abitata. Ci sono tanti casolari abbandonati in cui si rifugiano i migranti durante la stagione della raccolta che dura suppergiù da metà agosto a metà ottobre. Fino al 2009 era attivo un campo di accoglienza in cui i lavoratori potevano trovare acqua, cibo, posti per dormire e bagni. Nonostante la cattiva gestione (non esiste ad oggi una rendicontazione delle spese, il che fa supporre che i gestori abbiano molto speculato sull'intero progetto) il campo aveva molti pregi tra cui quello di mantenere i migranti piuttosto vicino al paese e più indipendenti, almeno dal punto di vista dei bisogni primari,dai caporali. La chiusura del campo ha portato i migranti a cercare riparo, in condizioni disumane, nei piccoli casolari, residuo della riforma agraria degli anni 50, dislocati nella campagna. Sono strutture diroccate (alcune fuori dai limiti dell'agibilità) senza acqua e elettricità, di poco più di 30-40 metri quadrati, in cui capita che si trovano a convivere anche 30 o 40 (talvolta di più) migranti. Alcuni di questi casolari si trovavano vicino al paese, ma il Comune di Spinazzola ha deciso di costringere i proprietari delle masserie a metterle a norma, oppure murarle o abbatterle. I migranti si sono dovuti quindi allontanare dalle zone circostanti i paesi abitati e gli unici tetti che sono riusciti a trovare sono lontani dai paesi: zone come Boreano, piccolo paesino ormai del tutto disabitato a 20 km da Palazzo S.G, sono diventati veri e propri “ghetti” in cui i migranti vivono confinati in totale balia dei caporali. Nei vari casolari i lavoratori vivono divisi sia per gruppi etnici sia per “appartenenza” allo stesso caporale: ogni spostamento da un casale ad un altro comporta una violazione dei “confini” di proprietà del caporale, severamente punito. Alcuni vivono controllati a vista: situazione più eclatante quella di un gruppo di sudanesi che risiedono in zona Santa Lucia, in cui i caporali impediscono l'accesso sia all'Omb (osservatorio Migranti Basilicata) che ad Emergency (presente nella zona col “polibus” un ambulatorio mobile).
La totale mancanza di acqua, cibo e energia elettrica rende i migranti del tutto dipendenti dai caporali che ovviamente non perdono l'occasione per lucrarci: l'acqua è fornita spesso dai caporali (i migranti difficilmente hanno i mezzi per spostarsi e per raggiungere le fonti di acqua vicine)a costi variabili da 5 ai 15 euro secondo la quantità. Spesso gli unici mezzi di trasporto che i lavoratori hanno a disposizione sono i mezzi di trasporto dei caporali stessi.


 Il lavoro è pagato a cottimo: dai 3. 50 euro ai 5 euro per un cassone di pomodori (circa 3 quintali), per un massimo di 5 cassoni a giornata. Da questi vengono detratte le spese per il cibo, l'acqua e i trasporti forniti. I caporali ricevono invece anche 10 euro a lavoratore che riescono a schiavizzare”. In ogni caso anche la paga non è garantita: i caporali pagano spesso solo a fine settimana (sono così sicuri che i braccianti non se ne andranno), talvolta non pagano per niente. Ovviamente gli ingaggi regolari sono quasi inesistenti. Se fino a dieci anni fa i caporali erano solo italiani, dal 1998 sappiamo ufficialmente della presenza di caporali extracomunitari. Altra forma di lucro dei caporali è quella dei nulla osta per i lavoratori: i caporali ne chiedono anche più di quanti ne abbisognano per poterli rivendere a prezzi che arrivano fino a 7000 euro.

A tutto questo si aggiunge il pessimo comportamento delle istituzioni: eccetto un progetto provinciale di assistenza ai migranti molto limitato, le istituzioni hanno deciso di affrontare il problema migranti in meri termini di ordine pubblico. Frequentemente si ricorre alle forze del “disordine” per lo sgombero forzato dei migranti dai loro miseri ripari. L'ultima trovata del ministero dell'Interno è stata addirittura, in conseguenza della fantomatica “emergenza tunisina”, la costruzione di un Ciet (centro di identificazione ed espulsione temporaneo): un campo che inizialmente doveva essere di accoglienza e che è stato progressivamente trasformato in un lager (dapprima le tende sono state circondate da una altissima gabbia metallica poi si è costruito nell'ultimo mese un altissimo muro di cemento armato). Sulle condizioni dei migranti entro quel centro è difficile farsi un'idea: c'è una direttiva del Ministero dell'Interno dell'Aprile di quest'anno che impone il segreto entro ogni Cie e vieta l'entrata dei giornalisti. In ogni caso la repubblica è riuscita a mettere on line un video girato dai migranti stessi in cui si mostrano tentativi di fuga, pestaggi e la famigerata gabbia.

La situazione è chiaramente estremamente difficile: vi si trova una strana “collaborazione” tra caporali, Sacra Corona e istituzioni che fanno di tutto per mantenere in condizioni di schiavitù i lavoratori. Non è pensabile che la raccolta dei pomodori nella provincia di Potenza dia vita ogni anno ad una “emergenza invasione” a cui fare fronte a suon di manganelli, Cie e lavoro nero.
Le Brigate hanno deciso di portare la loro opera anche in queste zone, estendendo la Campagna Ingaggiami e la Lega dei Braccianti alla zona di Palazzo San Gervasio, in stretta collaborazione con l'Associazione Michele Mancino e l'Osservatorio Migranti Basilicata, uniche realtà che nella zona escono dalla logica razzista , securitaria e emergenziale costruita attorno ai lavoratori stagionali e che si prodigano realmente per spezzare la catene del caporalato.

Saremo presenti, come sempre nel limite delle possibilità imposte alle Brigate dalla sua natura di realtà autorganizzate e autofinanziate, laddove ci siano margini di intervento pratico e politico di lotta contro lo sfruttamento generato dai padroni e malavita organizzata, contro il caporalato e il razzismo: Palazzo san Gervasio è una di queste realtà.

BRIGATE DI SOLIDARIETA' ATTIVA



martedì 11 ottobre 2011

L'Honduras e la scoperta del tesoro


di Fabrizio Lorusso
haiti_habitat_09.jpgL'Honduras ha approvato (anche nella Costituzione) il progetto della Charter City, una città da edificare ex novo e commissionare agli investitori e paesi stranieri con leggi proprie (eventualmente fuori dal regime democratico) per attirare investimenti e "sviluppo". Si basa sulle teorie del candidato al Nobel Paul Romer di Stanford e sul modello cinese di Hong Kong e Shenzhen. Sono anni che Romer va in giro per il mondo a proporre a paesi in via di sviluppo soluzioni miracolose fondate sulla teoria economica mainstream. Sarebbe l'outsourcing di un'intera città. Una via di mezzo tra la zona franca nella sua variante latino americana e i paradisi fiscali con tutte le violazioni dal basso (diritti del lavoro) e dall'alto (capitali all'estero e finanza) che ne conseguono: c’è il modello della città di Colón a Panama, caratterizzata dall’esasperata flessibilità di regole, diritti lavorativi e obblighi fiscali, e i noti paradisi offshore di cui tanto sentiamo tanto parlare quando ad ogni manovra finanziaria si propone un nuovo condono del fisco per gli evasori che hanno esportato capitali illegalmente. L’Honduras cerca in realtà un colpo mediatico, un escamotage col retrogusto di una promessa (quasi) realizzabile, il miraggio del tesoro. Il governo è delegittimato dopo il colpo di stato del 2008 e spera di "far arrivare il sogno americano" in patria anziché dover espellere lavoratori migranti verso il ricco Nord. Inoltre è prevista l'espropriazione del territorio abitato dal popolo dei Garifuna sulla costa caraibica. Ma vediamo i dettagli.
Lo scorso 28 luglio l’Honduras è diventato il primo paese al mondo a modificare la Costituzione per permettere la fondazione sul territorio nazionale di una Charter City, cioè una “città modello” a statuto speciale affidata in gestione a una potenza straniera. Con 107 voti a favore e solo 7 contrari il Parlamento ha dato il via a un progetto che punta a costituire un sistema ibrido, un mix tra il regime della zona franca e il paradiso fiscale concentrato su una superficie di 1000 chilometri quadrati con la capacità d’accogliere almeno un milione di persone.
L’ideatore di questa versione moderna delle città-stato è l’economista di Stanford candidato al Nobel, Paul Romer. Da vent’anni il professor Romer gira il mondo illustrando il suo progetto che promette crescita e benessere a quei paesi in via di sviluppo che, in cerca di soluzioni rapide alle crisi interne e globali, sono disposti a concedere in outsourcing un’intera città. Romer sembra aver scoperto la formula magica per risolvere i problemi di corruzione e sottosviluppo che affliggono la gran parte dei paesi dell’Africa e dell’America Latina. Nel 2008 il Madagascar aveva accettato il progetto ma un colpo di Stato ne impedì la continuazione. Hong Kong, Shangai e Singapore sono i casi principali citati dal guru statunitense a supporto della sua tesi per cui grazie all’imposizione di regole chiare dall’esterno e alla volontà del paese anfitrione e dei finanziatori sarebbe possibile trasformare un dato territorio in un modello di sviluppo da riprodurre in serie.
In alcune conferenze Romer ha suggerito al Presidente cubano Raul Castro di prendere accordi con gli Stati Uniti per trasformare la base di Guantanamo in una città modello sotto il controllo canadese. Ha anche azzardato un piano per Haiti che prevede la sostituzione dei caschi blu dell’Onu sull’isola con una missione che dia vita a una città amministrata dal Brasile. Romer sembra aver scoperto la formula magica per risolvere i problemi di corruzione e sottosviluppo che affliggono la gran parte dei paesi dell’Africa e dell’America Latina. Si sta giocando il Nobel per l’economia, uno dei più astrusi tra i premi conferiti dall’Accademia di Svezia, con questo progetto? Non lo so, ma quanti paesi in via di sviluppo sono disposti ad affidarsi alle sue teorie? Ogni tanto qualcuno ci casca.
Gli elementi comuni alle Charter City sono almeno tre: la scelta di un territorio disabitato, uno statuto (“charter”) garantito da uno Stato straniero neutrale e la libertà d’ingresso e residenza. Il regolamento approvato dai legislatori honduregni stabilisce il bilinguismo, quindi si parleranno l’inglese o un’altra lingua oltre allo spagnolo. Inoltre non vi saranno restrizioni alla circolazione delle valute straniere insieme alla lempira, la moneta nazionale. Il pericolo è che le regole d’oro che dovrebbero impulsare la crescita economica all’interno della “città perfetta” conducano alla precarizzazione del lavoro, al congelamento dei sindacati, a vantaggi fiscali indiscriminati e alla sospensione di alcune garanzie democratiche in favore dell’efficienza amministrativa. La proposta di creare da zero una capitale economica e finanziaria in mezzo al deserto ricorda più le sfide di vecchi videogiochi come Sim City e Civilization che una politica efficace e realista per stimolare lo sviluppo. Senza riforme fiscali, redistribuzione, sanità universale, educazione gratuita e di qualità non c’è sviluppo, al massimo solo crescita per qualche anno e poi? Inventiamo la città perfetta e la facciamo costruire alla Norvegia? L’esperimento risulterebbe in un’utopia d’ingegneria socioeconomica discutibile dal taglio positivista e determinista ma, si sa, la mancanza di visione e la fretta non sono buone consigliere. L'idea delle città modello ricorda da vicino la definizione e i tratti che venivano attribuiti dai sociologi della teoria della dipendenza latino-americana - per esempio, l'ex presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso ed Enzo Faletto - all'economia dell'enclave che è una "isoletta di capitalismo monopolista inserita in contesti precapitalisti con cui non hanno altra relazione se non quella di estrarne l'eccedente economico". Inoltre le caratteristiche dell'enclave si riassumono in una creazione o acquisizione di un settore che diventa un prolungamento diretto dell'economia centrale riguardo alle decisioni di investimento, alla gestione degli utili e al legame con il mercato mondiale che è più vicino e integrato rispetto a quello nazionale.
Ad ogni modo l’Honduras deve trovare i finanziamenti di governi, imprenditori e manager dei paesi industrializzati che, attratti dai presunti vantaggi legali ed economici da poco approvati per le Charter City, dovrebbero edificare la metropoli del futuro in soli 4 anni secondo le stime governative. La città modello avrà una legislazione speciale, un proprio sistema amministrativo, un governatore, una polizia e una magistratura autonomi e, quindi, sfuggirà in buona parte al controllo politico di Tegucigalpa. Le zone segnalate per la costruzione sarebbero due: la Baia di Trujillo, una regione caraibica devastata dall’uragano Mitch nel 1998, e la costa settentrionale atlantica della Mosquitia che è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Da secoli entrambe sono abitate dal popolo d’origine africana dei garifuna e loro sono tra i più acerrimi nemici del megaprogetto che minaccia usi, costumi, ecosistemi e territori locali.mapa_honduras.jpg
“Il problema non sono le regole, ma la politica e la gente corrotta”, sostiene Carlos Sabillón, politologo e opinionista televisivo honduregno. Sabillón è molto scettico sulla riuscita dell’operazione. “Siamo di fronte alla creazione di uno Stato dentro lo Stato. Chi lo finanzia? Ricordiamo che i narcos hanno capitali in eccesso pronti da investire…”, ha aggiunto.
Cayo Cochino, un isoletta del dipartimento honduregno di Roatan era già stata affittata per la versione italiana del programma L’Isola dei Famosi. Ora la stessa regione potrebbe ospitare il progetto, totalmente compatibile con l’ideologia e lo spirito di quelle produzioni televisive (!), della Charter City, si pensa infatti alla sua costruzione nella zona costiera tra Trujillo e la Ceiba che fu devastata dall’uragano Mitch nel 1998. Così la città perfetta dovrà essere approntata anche per resistere alla terribile stagione degli uragani, chissà se ci hanno pensato.
Il Presidente dell’Honduras, Porfirio Lobo, s’è rivolto ai cittadini invitandoli “a sognare, a pensare ad un luogo ideale dove possiamo vedere come arrivano senza limiti gli investimenti”. Malgrado i buoni auspici il paese è in balia della stagnazione economica e della violenza che si manifesta con le sistematiche violazioni dei diritti umani e con un tasso di omicidi tra i più alti al mondo, 70 ogni 100.000 abitanti nel 2010. L’ascesa politica di Lobo cominciò poche settimane dopo il golpe del giugno 2008 che costrinse all’esilio l’allora Presidente Manuel Zelaya. La classe dirigente honduregna è rimasta a lungo isolata dalla comunità internazionale, il paese è stato riammesso da poco nella OSA (Organizzazione Stati Americani), e, mentre sogna di avere la sua Hong Kong caraibica, resta alla disperata ricerca della legittimità perduta.
La favola economica del mercato perfetto e della corrente neoistituzionalista, secondo cui bastano regole e istituzioni funzionanti, magari gestite dall’esterno, per generare lo sviluppo, fare il salto verso il “primo mondo” e automaticamente distribuire ricchezza a tutto il sistema non ha dato ancora i suoi frutti a queste latitudini e, in generale, nel mondo reale.
Già negli anni cinquanta, quando anche i Chicago Boys di Milton Friedman cominciavano ad aggiornare e diffondere teoria economica neoclassica, il monetarismo e il neoliberismo, l’economista e politico statunitense W. W. Rostow sosteneva la teoria del “goteo”, che in spagnolo significa gocciolamento, alludendo alla ricchezza e al benessere che sarebbero filtrati a tutta la società se si lasciava liberamente operare il mercato.
Ecco che ancora oggi l’Honduras post-golpista prova a sperare in soluzioni facili e locali, quali le Charter City, che diffondano il paradiso in tutto il paese e, s’è detto, anche in tutto il continente. Intanto ci si chiede giustamente per quanti anni ancora continueranno la militarizzazione, le violazioni ai diritti umani e la violenza strutturale che provoca quasi ventimila morti all’anno, 80 omicidi ogni 100.000 abitanti, un tasso che è oltre quattro volte quello messicano. Se gli unici che avranno accesso al paradiso della città perfetta saranno gli honduregni più istruiti e qualificati, allora non vedo molte speranze per gli 8 milioni di connazionali che saranno esclusi e continueranno a emigrare. Quali meccanismi sono stati previsti per l’estensione dei benefici e lo sviluppo? Per ora non se ne vedono.
Chiudo con alcuni link.
Intervista a Paul Romer: qui
Osservatori su Honduras, Nicaragua e il Centro America
http://www.itanica.org/
http://www.peacelink.it/latina/a/
Una versione ridotta di questo articolo è uscita sul quotidiano L'Unità del 9 settembre 2011.
http://www.carmillaonline.com/archives/2011/09/004036.html#004036

Il pericolo di essere giornalista Libertà d'espressione, omicidi, impunità e colpo di Stato

© (Foto G. Trucchi/Rel-UITA)
 
 
L'Honduras si è trasformato in uno dei paesi più pericolosi per l'esercizio del giornalismo. L'omicidio di 16 giornalisti dal colpo di Stato del giugno 2009 a oggi e l'impunità che regna nel paese, sono stati temi di analisi e dibattito durante il Convegno "Impunità, libertà di espressione e giustizia", che si è svolto dal 5 al 7 ottobre nella capitale honduregna. 
 
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Video sul tributo reso ai giornalisti assassinati
- Intervista con Frank La Rue (spagnolo)
 
Durante la sua presentazione, Frank La Rue, relatore speciale delle Nazioni Unite per la tutela della libertà di espressione, ha segnalato la forte preoccupazione di questa commissione per l'eccessivo silenzio vincolato alla violazione dei diritti umani nel Paese. "Sembra esserci una connivenza basata sul silenzio o un silenzio forzato dall'intimidazione. E se a questo silenzio aggreghiamo 16 giornalisti e più di 40 leader sociali assassinati, la situazione diventa molto critica", ha affermato davanti a un pubblico molto attento. 

Un ulteriore elemento che sta creando molta preoccupazione a livello internazionale è l'impunità. "L'impunità è di per sé una violazione dei diritti umani e un invito a commettere altri crimini. Benché non possiamo segnalare i responsabili di questi crimini, possiamo sì dire che lo Stato deve investigare e punire i responsabili", ha detto La Rue
 
Si è anche riferito alle recenti dichiarazioni di Porfirio Lobo, il quale ha accusato certi settori della società honduregna di usare il tema dei diritti umani per screditare il Paese. "Il vero atteggiamento di un governo democratico è di riconoscere le proprie responsabilità. È assurdo dire che si tratta di una campagna di discredito internazionale", ha affermato. 
 
Concludendo il suo intervento, il relatore delle Nazioni Unite ha ribadito l'urgenza di riconoscere che quanto accaduto in Honduras nel 2009 è stato un colpo di Stato. "Il riconoscimento dell'Honduras a livello internazionale è positivo, ma solo se avviene partendo dal riconoscimento del colpo di Stato, perché la storia non può essere ignorata. 
 
La storia - ha continuato La Rue - segna i popoli e lascia ferite che, se non guariscono, provocano un dolore profondo e chiudono la porta alla possibilità di forzare e forgiare una riconciliazione nel Paese. La verità deve essere riconosciuta", ha concluso. 
 
Attori di fatto   
Félix Molina, giornalista honduregno e direttore del programma della Resistenza che si trasmette su Radio Globo, assicura che "il colpo di Stato ha rotto l'istituzionalità e ha permesso di avanzare ad altri attori nazionali, che stavano incidendo sullo Stato prima del golpe. Stiamo parlando dei gruppi economici che sono dei veri e propri poteri di fatto nel Paese, il crimine organizzato nelle sue più diverse manifestazioni, le multinazionali che accaparrano territori, l'industria estrattivista e delle monoculture, tra gli altri". 
 
Secondo Molina, l'irruzione di questi attori in un contesto di forte debolezza dello Stato e di militarizzazione della società si è tradotta in un "evidente peggioramento dell'esercizio della libertà di espressione, sia per quanto riguarda i mezzi d'informazione e i giornalisti indipendenti vincolati a processi di cambiamento sociale e politico, che per la cittadinanza e il diritto che ha di essere informata". 
 
Oltre ai 16 giornalisti assassinati, Molina ha segnalato un'interminabile serie di attentati e minacce contro i mezzi d'informazione e gli stessi giornalisti. In tutti questi casi esiste una totale impunità. "Lo Stato resta indifferente di fronte a questi episodi. Dimostra disinteresse e non indaga. Non esiste nemmeno una posizione ufficiale a favore del rispetto della libertà di espressione. Tutto ciò contribuisce all'aumento dell'impunità", ha affermato. 
 
Ha sottolineato infine il ruolo che certi mezzi di informazione hanno svolto per "cospirare politicamente a favore della rottura istituzionale, distorcendo o ignorando la realtà. Tutto ciò permette mantenere nel silenzio le violazioni ai diritti umani e contribuisce a peggiorare la situazione", ha concluso.
 
© (Testo e Foto Giorgio Trucchi  - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione  Italia-Nicaragua - www.itanica.org )